La Maschera mistero, enigma, seduzione. La Maschera fa parte di Venezia e ne reincarna l’essenza, pochi sanno da dove nasce la sua tradizione Veneziana: è una storia travagliata che segue quella della Serenissima Repubblica.
La maschera (dall’arabo “mascharà”, scherno, satira) è sempre stata, fin dalla notte dei tempi, uno degli elementi caratteristici e indispensabili nel costume degli attori. Originariamente era costituita da una faccia cava dalle sembianze mostruose o grottesche, indossata per nascondere le umane fattezze e, nel corso di cerimonie religiose, per allontanare gli spiriti maligni. Con il Carnevale la maschera diventa simbolo della necessità di abbandonarsi al gioco, allo scherzo e all’illusione di indossare i panni di qualcun altro, esprimendo quindi diversi significati: la festa e la trasgressione, la libertà e l’immoralità. “Buongiorno Siora Maschera”, lungo le calli, per i canali e nei listoni era questo il saluto. L’identità personale, il sesso, la classe sociale non esistevano più e si entrava a far parte della Grande Illusione del Carnevale in un posto, unico al mondo, dove tutto può accadere, dove ogni scorcio non cessa di incantare. Nella cultura veneziana con il termine “maschera” si indica l’attività di “mettersi barba e baffi finti” e “maschera” era anche il soprannome dato alle donne che si travestivano da uomini e agli uomini che si travestivano da donne. Ben presto la maschera divenne simbolo della libertà e della trasgressione a tutte le regole sociali imposte dalla Repubblica Serenissima a Venezia… La storia della maschera veneziana inizia già nel 1268, anno a cui risale la più antica legge che limita l’uso improprio della maschera: in questo documento veniva proibito agli uomini in maschera, i cosiddetti mattaccini, il gioco delle “ova” che consisteva nel lanciare uova riempite di acqua di rose contro le dame che passeggiavano nelle calli. Gli artigiani che fabbricavano maschere erano chiamati maschereri fin dal tempo del Doge Foscari e possedevano un loro statuto datato aprile 1436. Appartenevano alla frangia dei pittori ed erano aiutati nella loro professione dai targheri che imprimevano sopra lo stucco volti dipinti, a volte di ridicola fisionomia, con dovizia di particolari. La produzione di maschere si era così intensificata che nel 1773 esistevano ufficialmente 12 botteghe di maschere a Venezia: poche se si considera l’uso che se ne faceva in quegli anni. La richiesta di maschere ed il loro utilizzo era tale per cui si cominciarono a fabbricare molte maschere “in nero”, dando lavoro a tante persone e riuscendo così a intensificare la produzione e la diffusione a livello europeo.Le maschere erano e lo sono ancora oggi fatte di cartapesta e ne venivano prodotti diversi modelli in diversi colori e decorati con gemme, tessuti e nastri.. La maschera non era utilizzata solo durante il periodo di Carnevale ma in molte occasioni durante l’anno: era permessa il giorno di Santo Stefano (che sanciva la data di inizio del Carnevale veneziano) e fino alla mezzanotte del Martedì Grasso (che concludeva i festeggiamenti per il Carnevale); era permessa durante i quindici giorni dell’Ascensione e alcuni, con particolari deroghe, la utilizzavano fino a metà giugno. Inoltre, durante tutte le manifestazioni più importanti come banchetti ufficiali o feste della Repubblica era consentito l’uso di Bauta e Tabarro. La Bauta era utilizzata sia dagli uomini sia dalle donne in svariate occasioni: addirittura era un obbligo per le donne sposate che si recavano a teatro mentre era proibita alle ragazze in età da matrimonio. La Bauta è formata da un velo nero o Tabarro, un tricorno nero e una maschera bianca. La maschera bianca era detta “larva”, probabilmente dalla stessa voce latina il cui significato è appunto maschera o fantasma, e permetteva di bere e mangiare senza mai togliersela, mantenendo così l’anonimato. Oltre a tutto ciò si soleva anche indossare il Tabarro, un lungo mantello nero che copriva fino a metà la persona. Il Tabarro era composto da una mantellina che raddoppiava sopra le spalle, poteva essere di panno o di seta secondo le stagioni, bianco o turchino, scarlatto per un’occasione di gala, a volte decorato con fronzoli, frange e fiocco “alla militare”. Era molto usato anche dalle donne, scuro d’inverno e bianco d’estate. Un’altra maschera molto usata a Venezia era la Moretta: una maschera ovale di velluto nero che veniva usata dalle donne. La sua invenzione ebbe origine in Francia, dove le dame erano solite usarla per andare in visita alle monache, ma si diffuse rapidamente nella Serenissima, poiché abbelliva particolarmente i lineamenti femminili. La maschera era completata da veli velette e cappellini a larghe falde. Dato che inizialmente si indossava tenendola in bocca grazie ad un piccolo perno, era una maschera muta e quindi particolarmente gradita agli uomini. Durante il Carnevale i Veneziani si concedevano trasgressioni di ogni tipo e la Bauta o la Moretta erano utilizzate per mantenere l’anonimato e consentire qualsiasi gioco proibito, sia da parte di uomini che da parte di donne. Anche i preti e le monache approfittavano delle maschere per celarsi e trasgredire compiendo fughe amorose o “multas inhonestas”. Allo scopo di limitare l’inarrestabile decadimento morale dei Veneziani, la Serenissima in varie riprese ha legiferato in materia di Carnevale e ha disciplinato l’uso delle maschere e dei travestimenti. Sin dai primi del ‘300 cominciarono ad essere sempre più numerose le leggi che promulgavano decreti per fermare il libertinaggio degli abitanti di Venezia del tempo e per limitare l’uso esagerato delle maschere. Era proibito indossare la maschera nei periodi che non fossero quelli di carnevale e nei luoghi di culto, così com’erano proibite le armi e gli schiamazzi di gruppo. L’uso della maschera veniva proibito alle prostitute e agli uomini che frequentavano i casini. Questo perché spesso la maschera era usata per celare la propria identità e per risolvere affari poco puliti o portare avanti relazioni curiose. Per esempio il Tabarro era, spesso, utilizzato per nascondere armi e proprio per questo furono emanati molti decreti per impedire alle maschere di utilizzare il mantello per scopi non proprio ortodossi e soprattutto pericolosi. Coloro che erano colti in flagranza di reato andavano incontro a pene molto pesanti: per gli uomini la pena era di due anni di carcere, il servizio per 18 mesi nelle galere della Repubblica Serenissima, il pagamento di 500 lire alla Cassa del Consiglio dei Dieci. L’elenco dei decreti procede di pari passo a quello dello svolgersi, annuale, del Carnevale. Di volta in volta viene aggiunta una proibizione: vietato recarsi in maschera all’interno dei luoghi sacri, vietato mascherarsi in abiti religiosi, vietato ballare in pubblico al di fuori dei giorni stabiliti per la festa del carnevale. Vista l’usanza di molti nobili Veneziani che andavano a giocare d’azzardo mascherati per non essere riconosciuti dai creditori, nel 1703 sono proibite per tutto l’anno le maschere nei Ridotti, cioè le case da gioco veneziane. Ma esisteva anche il rovescio della medaglia: nel 1776, una nuova legge, questa volta atta a proteggere l’ormai dimenticato “onore di famiglia”, proibiva alle donne di recarsi a teatro senza una maschera. Dopo la caduta della Repubblica, il Governo Austriaco non concedette più l’uso delle maschere, se non per feste private o per quelle riservate. Con l’inizio della dominazione austriaca il Carnevale di Venezia attraversò una fase di decadenza. Solo durante il secondo governo austriaco fu permesso di nuovo di utilizzare le maschere durante il Carnevale. Il governo italico si dimostra più aperto, ma questa volta sono i Veneziani ad essere diffidenti: ormai Venezia non era più la città del Carnevale ma solo una piccola provincia dell’Impero, quindi senza più libertà… Ai giorni nostri la goliardia e il colore delle maschere fanno di Venezia la capitale del Carnevale per eccellenza. Eleganza, allegria e passione colorano calli, piazze e campielli. Venezia è il Carnevale e il Carnevale è Venezia.

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