…..”” l’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero del cuore è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso, il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo….. a “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’oggettività scientifica o la soggettività trascendentale. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza immaginale: dai nostri “oh!” di meraviglia e di riconoscimento…. e la risposta estetica che salva il fenomeno: il fenomeno, che è il volto del mondo. “Tutte le cose periscono, salvo il Suo volto” dice il Corano (XXXVIII, 88) e Corbin (L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn’Arabî) così lo intende: “Tutte le cose … salvo il Volto di quella cosa”. Dio, il mondo, tutte le cose possono trapassare nel nulla, essere vittime di costrutti nichilistici, di dubbi metafisici, della disperazione in ogni sua forma. Ciò che rimane quando tutto perisce è il volto delle cose così come sono. Quando non c’è alcun luogo dove rivolgersi, ritorna al volto che ti sta dinanzi, guarda in faccia il mondo. Lì sta la dea che dà al mondo un senso che non è né mito né significato; che è questa cosa, che ho davanti, come immagine: il suo sorriso una gioia, una gioia che è “per sempre”. Dunque il problema del male, come quello del brutto, rimanda in primo luogo al cuore anestetizzato, al cuore che non reagisce a quello che ha davanti e che trasforma con ciò stesso il variegato volto sensuoso del mondo in monotonia, in uniformità, in unità. Il deserto della modernità. Eppure, sorprendentemente, quel deserto non è senza cuore, perché il deserto è dove vive il leone. Deserto e leone sono tradizionalmente associati nella medesima immagine, sicché, se vogliamo ritrovare il cuore reattivo, dobbiamo andare là dove più sembrerebbe assente….. più grande è il nostro deserto, più grande deve essere il nostro furore, e quel furore è amore…….Le passioni dell’anima rendono abitabile il deserto. Non abitiamo una grotta di rupi, bensì il cuore che è dentro il leone. Il deserto non è in Africa; è dovunque, quando si è disertato il cuore. I santi non sono morti; essi vivono nelle passioni leonine dell’anima, nelle immagini che ci tentano, nelle fantasie sulfuree e nei miraggi: la via dell’amore. Il nostro percorso attraverso il deserto della vita, o qualunque suo momento, è il risveglio alla vita come deserto, il risveglio della belva, sentinella del desiderio, la sua zampa famelica, infocata e insonne come il sole, esplosiva come lo zolfo, che incendia l’anima. Il simile cura il simile: la belva del deserto è il nostro custode nel deserto della burocrazia moderna, della bruttezza urbana, delle banalità accademiche, dell’aridità professionale e ufficiale: nel deserto della nostra ignobile condizione…quel furore ci fa paura; non osiamo ruggire”””…..

“Fuochi blu” di J. Hillman

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