Radici europee degli Indiani d’America ? Il fossile di un bambino vissuto in Siberia 24 mila anni fa ha svelato agli archeologi indizi per risolvere un puzzle complesso: quello delle antiche migrazioni umane nel continente americano. Le analisi genetiche delle ossa del giovane – noto come ragazzo di Mal’ta, dal nome del villaggio vicino al Lago Baikal, dove fu rinvenuto a metà del ‘900 – indicherebbero che un terzo del DNA dei nativi americani ha origini europee, e che le popolazioni dell’Europa occidentale si spinsero, nelle loro migrazioni, più a est di quanto si credesse. Indiani d’America, dalla Siberia camminando sullo stretto di Bering scritta nel Dna l’origine siberiana, raggiunsero l’America attraverso una lingua di terra scomparsa Una sottile striscia di terra ghiacciata che unisce le terre più inospitali dell’Asia e dell’America, un popolo in marcia attraverso lo stretto di Bering, tra Siberia e Alaska, appena 12mila anni fa. E’ questa la suggestiva immagine che, per i ricercatori dell’Università del Michigan, fotografa le origini delle popolazioni native americane: un’immagine che si oppone a quella tradizionale, secondo cui i nativi di Nord e Sud America sarebbero giunti 30mila anni fa dalla Polinesia e da altre zone dell’Asia, via mare e via terra, in ondate successive. La nuova teoria si fonda sull’esame delle caratteristiche genetiche di 29 popolazioni americane e di due gruppi siberiani: l’équipe di genetisti ha rilevato un’unica variante genetica che caratterizza tutti i popoli americani – senza distinzione fra nord, centro e sud – e che, nel mondo, si rileva esclusivamente nella Siberia dell’est. Man mano che ci si allontana dallo stretto di Bering, le somiglianze genetiche fra siberiani e indiani americani si riducono. Si tratta di una mutazione “giovane”, si legge ancora nella ricerca, il che fa pensare ad una migrazione relativamente recente, avvenuta in un unica soluzione : “Se ci fossero stati diversi e successivi flussi migratori e se molti dei gruppi di migranti non avessero presentato la variante, non avremmo rilevato una presenza così diffusa della mutazione nelle Americhe”, sottolinea Noah Rosenberg, genetista che ha partecipato allo studio.